Questo sito utilizza cookie, anche di terze parti, per migliorare la tua esperienza e offrire servizi in linea con le tue preferenze. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque suo elemento acconsenti all’uso dei cookie. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie vai alla sezione con la nostra Cookie Policy.

La Repubblica, 12 agosto 2016

di Ilvo  Diamanti

Di riforma in riforma, dal 2000, il sistema universitario italiano si è complicato. E' difficile chiedere ai giovani cosa faranno da grandi. Ma, prima ancora, in cosa si sono laureati

Un tempo, ai miei tempi, cioè tanto tempo fa, i giovani studiavano per avere un futuro professionale. Per fare carriera. Nel privato, nel pubblico, nelle professioni. Mio padre, ad esempio, mi spinse a continuare gli studi, dopo le scuole dell'obbligo. Perché io potessi raggiungere quel livello di reddito  ma anche quella posizione socialeche auspicava. Per me, ma anche per se stesso. Perché attraverso i figli gli adulti promuovevano anche la propria ascesa sociale. Di generazione in generazione. Mio padre, ad esempio, sperava che io, dopo le scuole superiori, frequentassi Giurisprudenza. Cioè: Legge. Mi immaginava "Notaio". Guadagno e prestigio sociale garantiti. In alternativa, avrei potuto orientarmi alla carriera di Avvocato. D'altronde, sapeva che io con la matematica e con le discipline tecniche avevo poca confidenza. E a fare l'Ingegnere o l'Architetto proprio non ci pensavo. Così quando, concluso il Liceo classico, gli comunicai la mia scelta, mi guardò perplesso. E un po' depresso. Scienze politiche. Che cosa avrei combinato nella vita? Che avrei fatto? Il "politico"? Cioè, il professionista senza professione? Preciso che mio padre era politicamente impegnato. Consigliere comunale socialista, all'opposizione in un comune dove, nei primi anni 70, la Dc prendeva l'80% dei voti. Ma, insomma, una cosa era l'impegno, altro il lavoro. La professione. Per rassicurarlo, aggiunsi che, in effetti, avevo deciso di frequentare l'indirizzo sociologico. Con l'esito di aumentarne i suoi dubbi. Fra Scienza Politica e Sociologia: dove sarei finito? Che "mestiere" avrei fatto? Questione che si ripropose, in modo più netto, quando, finiti gli studi, divenuto "Dottore in Scienze Politiche", spiegai a mio padre che avevo deciso di intraprendere la professione del ricercatore. Avrei fatto il "Sociologo". Cioè? Che fa il Sociologo? Come si guadagna da vivere, per sé e la famiglia? Ma ormai si era rassegnato a quel figlio incapace di pensare al futuro in modo concreto. Mosso da passioni più che da interessi. Impegnato a inseguire le materie e le attività che gli piacevano più che un lavoro remunerativo e sicuro. Tuttavia, è una questione di fiducia. E lui si fidava di me. Così non fece nulla per "frenarmi". Anche se, ogni tanto, in modo discreto, interpellava mia moglie per capire se il sociologo riuscisse a mantenere la famiglia. Oppure  vi fossero problemi di reddito. Preoccupazioni che, progressivamente, declinarono, fino a scomparire. Soprattutto nei primi anni Novanta, quando  il figlio, a quarant'anni, divenne Ricercatore. Di ruolo. Cioè: "Professore". Statale. Garantito. Fino alla pensione.

Oggi, però, per i giovani, molto è cambiato. Nessun genitore pensa che studiare garantisca un futuro professionale. La maggioranza degli italiani, d'altronde, è convinta che, a differenza del passato, i figli non raggiungeranno la posizione sociale dei genitori. Eppure  tutti - o quasi - i genitori sostengono i figli negli studi. Dopo l'obbligo e le Superiori, li spingono a frequentare l'Università. Anche se molti non la concludono. Visto che, per numero di laureati, l'Italia è ultima in Europa.

Studiare, d'altronde, serve. Se non nel lavoro, nella vita. Aiuta a capire, a pensare. Il problema è che, dopo la riforma Berlinguer, del 2000, di riforma in riforma, di ministro in ministro, il nostro sistema universitario si è complicato. Oggi abbiamo Lauree brevi e Specialistiche. Meglio: Magistrali. Riassunte in un numero magico: il 3+2. Poi: basta Facoltà. Ma Scuole e Dipartimenti. Come ha osservato Federico Bertoni, in un saggio acuminato (UniversItaly. La cultura in scatola, Laterza, 2016), dentro all'Università "riformata" è cresciuta "una complicatissima ingegneria burocratica fatta di tabelle e classi di laurea, ordinamenti e regolamenti, curricula e piani didattici". Sommersa da crediti e discrediti. Per identificare il laureato oggi occorre fare riferimento ai corsi di Laurea. Che, però, hanno nomi e definizioni talora complessi. Che cambiano più volte, nel corso degli anni. Dipende: dal numero di iscritti, dai fatidici - e famigerati - requisiti minimi. Cioè, dai docenti di ruolo a disposizione.

Così, molto è cambiato da quando mio padre non capiva cosa sarei diventato da grande. Studiando Sociologia o Scienze Politiche. Che mestiere avrei fatto? Quale professione? E come mi sarei mantenuto? Come avrei  sostenuto la famiglia? Il futuro dei miei figli? Oggi il problema è diverso. Forse, ancor più complicato. Perché se le Facoltà non esistono più, se i Dipartimenti  sono multi-disciplinari. Affiancati da Scuole Interdipartimentali. Se i Corsi di Laurea cambiano definizione e nome. Spesso. Allora diventa difficile chiedere ai giovani cosa faranno da grandi. Ma, prima ancora, in cosa si sono laureati. Dopo la Laurea, saranno Dottori senza nome