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Il Corriere della Sera, 22 luglio 2016

di Gian Luigi Stella

Chiunque può superare una crisi è il quotidiano che ti logora», scriveva un secolo fa Anton Cechov. Ed è lì che il ripetersi e poi il ripetersi e poi il ripetersi ancora di attentati infetta le nostre vite iniettando insicurezza, affanno, paura. E più le armi sono diverse, il coltello, la pistola, il kalashnikov, il camion lanciato a tutta velocità a travolgere coppiette di pensionati e famigliole coi figlioletti sui passeggini, più monta l’inquietudine. La profanazione della nostra quotidianità. Ecco ciò che stiamo vivendo, noi europei. Come non ci fosse più uno spazio sicuro. Al riparo dall’impazzimento di un mondo che non riusciamo più a riconoscere. Perfino il dubbio che forse, vai a sapere, chissà, la strage di ieri a Monaco potesse non essere messa in conto al terrorismo islamico, un dubbio rimasto appeso a lungo, non è sembrato affatto rassicurante. Anzi, sembrava avere aggiunto insicurezza ad insicurezza: chiunque sia stato, siamo sotto attacco… Qui. A casa nostra.

Il punto è che, proprio come scriveva Cechov, è meno duro assorbire nel tempo un trauma spaventoso ma in qualche modo raro (un terremoto, lo schianto di un aereo contro la montagna, perfino l’apocalisse irripetibile delle Torri Gemelle) che non lo sgocciolio quotidiano di eventi che ci tolgono il fiato e finiscono per ricordarci la nostra fragilità. Torna in mente il famosissimo sermone del pastore Martin Niemöller poi attribuito anche a Bertold Brecht: «Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare».

Cosa c’entra? C’entra. Perché la prima via di fuga è quella: tocca agli altri. Anche chi fino a non molto tempo fa si illudeva di essere al riparo dai proiettili e dalle bombe, al contrario, sa oggi che la guerra che ci è stata dichiarata dal fanatismo terroristico dell’Isis e delle bande satelliti, come ci ricordano gli ultimi mesi, riguarda tutti. Ma proprio tutti. Le ragazze al tavolino di un caffè e gli spettatori di un concerto rock, come nel novembre scorso a Parigi. Le comitive in gita per vedere Santa Sofia, come quella dei turisti tedeschi ammazzati a gennaio da un terrorista suicida in piazza Sultanahmet a Istanbul, vicino alla Moschea Blu. I trentacinque viaggiatori falciati a raffiche di mitra a metà marzo all’aeroporto di Zaventem e alla stazione della metro di Maalbeek a Bruxelles.

Con gli Europei di calcio, l’ondata di simpatia verso l’Islanda, la sorprendente vittoria del Portogallo senza Ronaldo in lacrime in panchina, le folle di tifosi davanti ai mega-schermi, pareva che tirasse un’aria nuova. Al punto che quando il governo francese comunicò che vari attentati (c’è chi scrisse sedici) erano stati sventati negli stadi, nei dintorni o comunque nelle città dove si erano giocate le partite, la notizia fu vissuta quasi come una interferenza fastidiosa nella recuperata serenità quotidiana. «Non mi ci far pensare…».

Un’illusione. Spezzata la sera del 14 luglio quando il camion bianco guidato da quel tunisino sciupafemmine che ballava la salsa e beveva liquori e si faceva i selfie depilato come un bullo palestrato, è piombato sulla folla della Promenade des Anglais facendo mattanza di chi stava riassaporando la normalità di una serata estiva con i fuochi artificiali. Stupore dei conoscenti, dei vicini, della famiglia: «Ma come, lui? Mohammed Bouhlel? Un fanatico islamista lui?».

Neanche il tempo di capire cosa fosse davvero successo sul lungomare nizzardo ed ecco, a distanza di una manciata di ore, il giovanissimo profugo afghano o forse pachistano che irrompe con un’ascia su un treno regionale tra Ochsenfurt e Würzburg, in Baviera, e si avventa sui pendolari ferendone gravemente cinque al grido di «Allah Akbar!» prima di essere abbattuto dalla polizia ed essere incensato da Amaq News, la sedicente agenzia di stampa del Califfato. Per questo l’attentato di ieri sera a Monaco di Baviera, prima davanti a McDonald, poi al centro commerciale «Olympia» nel quartiere Moosach, a due ore di macchina dai nostri confini, con i suoi morti ha colpito l’Europa intera come una frustata in faccia. Perché ci dice, quale che sia la rivendicazione in arrivo, che questa violenza è ormai parte della nostra vita quotidiana. Può colpirci in trattoria, in spiaggia, al supermercato, alla stazione dei treni… In ogni momento. E non c’è polizia al mondo, piaccia o non piaccia a chi è pronto elettoralmente a cavalcare le paure, in grado di metterci al sicuro dai gesti improvvisi di giovani gonfi di odio ma fino a quel momento «normali», tranquilli, apparentemente inoffensivi.

Cosa fare? Se ne è parlato moltissimo, in questi giorni. Più vigilanza, più poliziotti nei quartieri, più attenzione ai siti internet che arruolano i disperati e offrono un infame «riscatto» ai criminali, più telecamere, più sermoni in italiano nelle moschee, più controlli sui barconi eccetera eccetera. Tutto vero. Tutto giusto. Ma più ancora è importante avere la consapevolezza, vigile ma non isterica, che può accadere anche da noi. Ed essere, tutti noi, più presenti. Fare finta che possa capitare solo agli altri o peggio ancora sfiorare il cornetto di corallo in tasca, antica tentazione nostrana, non è solo inutile. È autolesionista.