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Il Corriere della Sera, 8 febbraio 2016

di Paolo Mieli

Ha avuto una buona idea Matteo Renzi a proporre le primarie per eleggere il prossimo presidente della Commissione Ue destinato a sostituire Jean-Claude Juncker. Pur se in genere le primarie si fanno quando a votare è lo stesso corpo elettorale che poi andrà alle urne a scegliere chi dovrà guidare un governo, una regione o una città (e infatti in Italia nessuno le ha mai proposte per il presidente della Repubblica, che è eletto dal Parlamento), esse avrebbero comunque l’effetto di avvicinare i popoli europei alle istituzioni continentali. Ottima idea, ripetiamo. Ma lascia perplessi che Renzi abbia specificato nel presentarla che «non se ne può più di questa tecnocrazia». Parole alle quali si sono aggiunte invettive contro la «valenza dogmatica delle regole tecniche e dei parametri finanziari», il minaccioso «emergere di nuovi gruppi a Visegrad e dintorni» (Sandro Gozi). Il direttore dell’Unità, Erasmo D’Angelis, si è entusiasmato per il fatto che oggi a Berlino Yanis Varoufakis lancerà il movimento «Democracy in Europe» il quale darà forza ai concetti di cui sopra presentandosi «con una photo opportunity che andrà da Corbyn ad Assange, all’ex ministra francese Cécil Duflot a Brian Eno». Il merito di aver mosso le acque, ha scritto il responsabile del quotidiano Pd, va al nostro presidente del Consiglio che ha dato prova di non avere «alcuna timidezza né timori reverenziali» nei confronti dell’«impressionante deriva del governo europeo». Diversamente dai predecessori», ha proseguito l’autorevole giornalista, «Matteo Renzi non lecca più gli euroburocrati (proprio così: non lecca più gli euroburocrati!)» ma «li mette giustamente sotto stress», accendendo «i riflettori sui loro guasti», quelli «dell’austerity e della presunta sacralità del rigorismo», oltreché della «debolezza della Commissione Juncker in crisi verticale di credibilità». «L’Italia fa bene a non inchinarsi più» a questa «fiacca Europa», sono state le conclusioni del direttore del foglio fondato da Antonio Gramsci.

Parole riconducibili allo stato d’animo con il quale presumibilmente il nostro Paese si presenterà al Consiglio europeo del 18 febbraio che, come ha giustamente sottolineato Francesco Giavazzi su queste pagine, potrebbe essere uno dei più importanti nella storia recente dell’Unione. Anche per il fatto che si terrà mentre la Grecia di Tsipras ha ricominciato a denunciare problemi, il Portogallo di Antonio Costa ha presentato un progetto di bilancio «chiaramente in violazione del patto di Stabilità e di Crescita» (parole del vicepresidente della Commissione europea Valdis Dombrovskis), la Ue tratta con la Gran Bretagna per concederle qualcosa che la convinca a rimanere nell’Unione. Il problema, come ha fatto osservare lo stesso Giavazzi, è che se quel negoziato andrà a buon fine, il giorno dopo polacchi, danesi, svedesi, ungheresi e chissà quanti altri, chiederanno un medesimo trattamento. Discorso valido anche per l’Italia quando chiede flessibilità e deroghe alle regole europee sui conti pubblici. Richieste legittime, per carità, talvolta ben motivate (come per l’impegno a regolare l’immigrazione), ma che è improprio avanzare puntando l’indice contro l’Europa dei banchieri e delle tecnostrutture irresponsabili. Improprio, perché la Ue è sì vittima di terribili contraddizioni ma la Spectre di tedeschi, tecnocrati e banchieri sempre più presente nel discorso pubblico italiano, è un mostro creato dalle nostre menti, le quali collegano arbitrariamente difetti pur presenti nelle istituzioni di Bruxelles elevandoli a sistema. Quell’Europa non esiste. Non esiste un’entità continentale alla quale possiamo rivolgerci come se fosse una controparte, a cui sia legittimo chiedere flessibilità, altra flessibilità e ancora flessibilità. L’Europa matrigna è frutto di una suggestione. L’Europa non è altrove. L’Europa siamo noi. Nient’altro che noi.

L’idea di un ceto di comando al cui cospetto ci si possa presentare avendo in tasca la lista del «millederoghe» non tiene conto del fatto che — come fa presente un altro vicepresidente della Commissione europea, Jyrki Katainen — le autorizzazioni a non rispettare l’obiettivo del pareggio strutturale di bilancio ove fossero accolte per uno, due o tre Paesi, dovrebbero poi essere accordate a tutti. Ovvio che un criterio di elasticità contempli casi particolari, occasioni in cui si possa (anzi: si debba) prevedere un’eccezione.

Ma un’eccezione deve essere, appunto, un’eccezione. Anche in considerazione del fatto che per ogni deroga destinata a darci sollievo, ne dovrebbero esser concesse (ad altri) molte di più che avrebbero l’effetto di ricadere addosso a noi, come un peso sui nostri conti. Con il risultato di ritrovarci a dover constatare che la somma dei benefici di cui abbiamo goduto per via delle suddette concessioni è nettamente inferiore a quella di ciò che ci costano i vantaggi altrui. Per un Paese, poi, che ha un debito pubblico come il nostro e che è cronicamente incapace di tagliare le spese, ogni autorizzazione a spendere ulteriormente dovrebbe essere vista come un incubo. Altro che innesco di uno sviluppo, qui si rischia di ricominciare, pur animati dalle migliori intenzioni, a tirar fuori soldi che dovranno essere rimborsati dalle prossime generazioni.

Guido Ceronetti ha scritto — in Tragico tascabile (Adelphi) — che l’Europa in cui ci troviamo a vivere («umbratilmente») è un «semicontinente vagante, senza frontiere e senza difese d’insieme, aperto alle invasioni dal Mediterraneo e dalle regioni orientali, che gode delle leggi più miti e più tolleranti del mondo». Così che, in assenza di guerre (in virtù di quella che per Ceronetti è stata una pace «troppo lunga»), è pressoché impossibile ricondurre i suoi abitanti al principio di realtà.

Vediamo dappertutto demoni, tecnostrutture, Paesi oppressori e non ci accorgiamo della deriva provocata dai nostri debiti, dalle nostre mollezze, dalle nostre astuzie, dai nostri rinvii. Curioso. Siamo al paradosso che in un prossimo futuro Ceronetti verrà annoverato come uno degli ultimi europeisti rimasti in Italia. Di quelli amanti della verità, quantomeno.