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di Corrado Poli
10 novembre 2015
Considerazioni a seguito del mio intervento al Forum di ascolto per i dirigenti Pd (con Umberto Curi e Stefano Allievi)
La scelta autonomista per una leadership democratica
Nel 2015 non c’era alcuna possibilità che il PD vincesse le elezioni regionali nel Veneto, né ci sarà in futuro se qualcosa non cambia. Da un quarto di secolo mancano una base elettorale e un progetto chiaramente distinguibili dal centro destra. Il PD al governo della Regione favorirebbe un parziale e opportuno rinnovo della classe dirigente regionale, ma non esiste la possibilità storica e culturale di proporre una politica sostanzialmente diversa.
Per ottenere un peso maggiore nel Veneto il PD dovrebbe allargare il proprio consenso ai partiti di centro. Se il PD prendesse la guida di una coalizione di governo sarebbe un grande successo, ma il solo farne parte sarebbe comunque un obiettivo realistico. Questa strategia finora non è stata seguita per due ragioni. Anzitutto non c’erano le condizioni essendo il centro destra autosufficiente a formare la maggioranza. In secondo luogo non era poi così necessario visto che ci si accontentava di legittimi accordi di sottogoverno costruiti durante la Prima Repubblica e mai interrotti.
In tutta Europa i vecchi nemici, socialisti e liberisti, formano governi di coalizione per contrastare i variegati populismi. Oltre alle grandi coalizioni di Merkel, emergono leader di sinistra o di destra i cui programmi sono pressoché intercambiabili. Il caso più evidente fu Toni Blair e ora Cameron che non a caso ha favorito l’ascesa di una sinistra radicale nel Labour. In Italia abbiamo governi di coalizione dal 2011. Quella che secondo gli schemi tradizionali dell’analisi politica sembrava l’eccezione è diventata la norma. Perché il PD Veneto dovrebbe rifiutare questa prospettiva, peraltro molto “renziana”, nella regione in cui è più perdente che in qualsiasi altra?
La Lega non è più nemmeno il nemico principale avendo fallito su ogni fronte: dal federalismo alla sicurezza, dall’immigrazione inesorabilmente cresciuta, all’integrazione che non ha saputo gestire. Logorata dal potere romano, è scivolata anche sulla questione morale. Per questo s’è isolata accentuando un linguaggio gridato e razzista, inefficiente e minoritario, avulso dalla tradizione veneta moderata. Il compito storico del PD è impedire che gli alleati più seri della Lega – una parte degli eredi del partito cattolico, i liberali e i socialisti – non la seguano nella deriva salviniana. Un PD veneto coerente con quello nazionale, quindi in coalizione con i moderati di centro destra, sarebbe essenziale per contenere la montante alternativa populista che peraltro non è solo leghista. Altre proposte alternative alle grandi tradizioni politiche del novecento di cui il PD è parte essenziale – essenzialmente il Movimento Cinque Stelle – non brillano ancora per coerenza, ma si rivolgono con successo ai cittadini più giovani non rappresentati nelle istituzioni.
La rivendicazione coraggiosa di autonomia regionale sarebbe una via plausibile affinché il PD si guadagni un ruolo politico trainante. Se il PD veneto rivendicasse una coraggiosa autonomia dal partito nazionale sia nell’organizzarsi che nel richiedere lo statuto speciale, acquisirebbe immediatamente un’identità oggi sbiadita e la potrebbe spendere con i potenziali alleati. Allargherebbe il consenso tra chi finora non ha trovato credibile un’offerta politica quasi indistinta dal centrodestra e dalla Lega moderata di Zaia. Ma soprattutto sarebbe coerente con le strategie e le alleanze del PD nazionale.